martedì 4 marzo 2014

Vocaboli dialettali curiosi

caccì - ficcanaso. Femminile: caccina. Esiste anche la forma cacció, di identico significato.

cuppiarolo - fratello gemello. Termine rurale.

primaréccio - precoce, che nasce presto. Usato soprattutto per piante, frutti e ortaggi. L'aggettivo di senso opposto è "tardiòlo", cioè "tardivo".

proìbbido - abietto, spregevole, criminale. Questo aggettivo dialettale trae origine del verbo latino prohibēre, "tenere lontano"; letteralmente, quindi, caratterizza un individuo che viene respinto dagli altri (per poca affidabilità, cattive abitudini, etc). Da notare la pronuncia con l'accento sulla terzultima, esattamente come nel participio latino prohìbĭtus. Cfr. il sonetto di Carlo Grillantini intitolato "A cena dal Signore": "Se purtava al patìbbulo un birbante, / sgrassatore proìbbito e assassino; (...)".

rigulizzia - liquirizia. Cfr. francese réglisse, spagnolo regaliz.

sangózzo - singhiozzo. Termine rurale. Cfr. francese sanglot.

scubizzotto - sberla assestata sulla cima (o sul dietro) della testa. La parola è formata per analogia con "cazzotto" a partire dal sostantivo dialettale "cubizza", che indica la cima (o la base) della testa. Il prefisso s- è da ritenersi intensivo, come nell'italiano s-culacciare. "Cubizza" deriva dal latino volgare "capitia" (a sua volta discendente da caput, "testa, capo"), che ha dato origine anche allo spagnolo "cabeza".

sterlacca - allodola (Alauda arvensis). Potrebbe essere connessa con la parola inglese skylark, di identico significato. Il Century Dictionary and Cyclopedia riporta anche la forma alternativa sky-laverock.

sabato 29 giugno 2013

La canzone di messer Osmano


Nel capitolo I, XI del De vulgari eloquentia (1303-1305), Dante Alighieri, dopo aver bollato la parlata dei romani come il più indegno (turpissimum) fra i volgari della penisola, sceglie di citare una canzone a contrasto per offrire un saggio della lingua in uso a Roma, a Spoleto e nella Marca Anconitana. Il componimento, di cui è riportato soltanto l’incipit (Una fermana scopai da Cascioli, / cita cita se ‘n gìa ‘n grande aina), viene giudicato perfetto nella struttura metrica (recte atque perfecte ligatam) ed è classificato come una delle numerose canzoni che all’epoca si scrivevano “in improperium” delle genti spoletine e marchiane, con l’intento, cioè, di parodiarne la parlata in modo tutt’altro che bonario. Dante ne attribuisce la composizione a un non meglio identificato Castra, poeta fiorentino di cui ancora oggi si hanno davvero scarsissime notizie.
Un manoscritto della fine del Duecento, però, sembra contraddire gli estremi che l’autore della Commedia ci fornisce: si tratta del codice Vaticano Latino 3793, una silloge che contiene i più antichi testi poetici della letteratura italiana a noi pervenuti. Il documento, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, raccoglie per intero la canzone, riportando la dicitura “messer Osmano” proprio là dove gli altri componimenti mostrano il nome del proprio autore; di Castra il fiorentino, nel codice, non v’è traccia. Come si può spiegare, dunque, questa divergenza nell'attribuzione?
Da più di cent’anni a questa parte, gli studi in merito alla canzone non hanno mancato di suscitare pareri discordanti tra i critici e i filologi che si sono cimentati nella qualificazione e interpretazione del testo, il quale, per quanto semplificato e toscanizzato dal copista che stilò il codice, risulta comunque scritto in un idioma marchigiano dugentesco, antenato dei nostri dialetti. C’è chi, come Crocioni (1922), ha negato l’attendibilità del ragguaglio dantesco preferendo affidarsi al codice Vaticano, mentre altri hanno sostenuto che messer Osmano fosse uno dei due dialoganti fittizi del contrasto (De Bartholomaeis 1956); altri ancora hanno ipotizzato che Castra e Osmano fossero la stessa persona (Caix 1875), ma la questione è di là da risolversi.
Non v’è alcun dubbio, tuttavia, che la lingua e l’ambiente in cui fu composta la canzone siano verosimilmente marchigiani, più che spoletini o romani: si parla infatti di una fermana, del fiume Chienti (lo Clenchi, v. 35) e, soprattutto, la didascalia “messer Osmano” – che essa indichi un personaggio immaginario o un poeta reale – sembra proprio alludere a un nostro concittadino di qualche secolo fa, ovvero, come diremmo oggi, a un “signore osimano”. Tra le interpretazioni che hanno tenuto conto del contesto linguistico e morfologico marchigiano è senz’altro degna di nota quella di Baldoncini (1983).
Prima di passare brevemente in rassegna alcuni vocaboli della canzone, però, spendiamo qualche parola sul contenuto. Il testo, composto esattamente da 50 versi, è una rivisitazione del genere provenzale della pastorella: un contadinotto marchigiano, imbattutosi in una serva (fantilla) che sta portando da mangiare agli altri braccianti, riesce, dopo un breve battibecco, a piegarla di fronte alle sue avances (un po’ come succede in un altro famoso contrasto giullaresco del Duecento, Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo).
I critici che hanno curato le edizioni moderne della canzone sono concordi nel sostituire, sulla base del Vat. Lat. 3793, lo “scopai” di Dante con “iscoppai”. Camilli (1915) e Baldoncini lo hanno tradotto con istruii, ammaestrai, facendolo risalire a un latino ex-cuppare che propriamente significherebbe toglier via la scorza, dirozzare; in effetti, nell’odierno osimano rurale si riscontrano il verbo scurpulà/scuppulà, usato in merito alla sgusciatura dei frutti e, soprattutto, l’aggettivo scupparéccio, presente nel glossario di Grillantini (1966), che qualifica un frutto il cui nocciolo è facile a separarsi dalla polpa (ad esempio, una pesca o un’albicocca; si noti il suffisso –éccio, che indica propensione anche in scurdareccio, magnareccio, etc.). In ambito osimano, annotiamo anche i verbi scurpellà, che Morroni (2008) traduce con lacerare, e scuzzonà (Mengarelli 2005) che, per quanto leggermente diverso nella forma, vale istruire, addestrare. Il protagonista delle canzone avrebbe, insomma, “iniziato” la sua interlocutrice all’arte dell’amore.
La fermana si sta recando dai suoi compagni portando loro, tra le altre cose, “un truffo di vin misticato” (v. 15). A parte l’ancora attuale misticato, che rima con un “me l’ài comannato” dove si nota una altrettanto corrente assimilazione progressiva nd > nn, va sottolineato il vocabolo truffo, che Baldoncini rende con fiasca di terracotta, riportando anche le varianti marchigiane trufu, trufellu, senz’altro di area maceratese. Per quanto riguarda Osimo, Grillantini nel suo glossario dà la stessa traduzione al vocabolo vernacolare truffa, mentre con truffello si usa indicare il calamaro (Morroni 2008), forse perché – ma questa è una nostra congettura – la forma del mollusco sembrerebbe richiamare quella del vaso.
Fra i vari doni che il nostro campagnolo promette di offrire alla serva in cambio della sua desistenza, ci sono “paneri (panari per Contini) di profici / e morici” (vv. 32-33), cioè “canestri di fichi e more”. I morici sono proprio quelle murèghe che un tempo abbondavano sui rovi, ai bordi delle nostre vie di campagna. Poco più avanti si legge la protasi “se quisso no’ rdici” (v. 34), in cui il verbo è, come nel dialetto di oggi, soggetto a metatesi iniziale (ridici > ardici) e aferesi (‘rdici).         
Le rispondenze fra il lessico della canzone e il vernacolo attuale sono quindi numerose, ma certo non sufficienti a ricostruire un glossario dell’osimano dugentesco o ad attestare che il componimento sia stato scritto ad Osimo, dacché le discendenze di quei vocaboli sono diffuse un po’ in ogni zona del Piceno. Tuttavia, troviamo pur sempre affascinante la possibilità, ancorché remota, che uno tra i primi testi della letteratura italiana sia scaturito dall’ironia giocosa di un messere osimano di ottocento anni fa.

(pubblicato da La Meridiana)


         
Due tipi di “truffa” (immagine presa da “Saggi e studi…”, Grillantini 1966)

mercoledì 21 settembre 2011

Di nuovo su osimano e lingua latina

Come s'è già ricordato, i dialetti italiani sono frutto dell'evoluzione del latino, al quale nel tempo si sono sovrapposti linguaggi di origine differente. La lingua italiana stessa deriva dal volgare fiorentino, innalzato al rango di idioma nazionale per i meriti letterari di autori come Dante, Petrarca e Boccaccio.
Nella loro parallela evoluzione, i vernacoli italiani si sono spesso influenzati reciprocamente. Nel quadro dei dialetti centro-meridionali, dai quali viene distinta per convenzione la sfera dei dialetti settentrionali (gallo-italici), il toscano appare come un gruppo molto particolare. Infatti, le parlate di Toscana sono per certi versi più conservative rispetto al latino, e per altri si discostano di più. Un elemento di distacco dalla lingua di Virgilio è senza dubbio l'assenza della distinzione fra -o e -u latine, passata poi nell'italiano.
Il latino presentava parole terminanti in -o (es. quando, homo, facio, manduco) e in -u (es. dictus, paucus, filius; all'accusativo dictum, paucum, filium). Questo sistema si è venuto semplificando col tempo, cosicché nel fiorentino (e quindi in italiano) abbiamo quando-uomo-faccio-mangio, ma anche detto-poco-figlio, con la -u dell'accusativo aperta in .
Tuttavia, questa convergenza in -o non è avvenuta nel resto del centro-Italia, tant'è vero che in città come la vicina Macerata (ma anche già a Filottrano) si sente dire quanno-omo-faccio-magno, ma dittu-pocu-fiju, con la mancata apertura di -u.
Non bisogna trascurare, però, l'influenza che il toscano sta esercitando da qualche secolo sulle parlate limitrofe. Infatti, il romanesco, il perugino e la zona anconitana risentono molto dell'influsso fiorentino. Questi tre gruppi dialettali, perciò, costituiscono una fascia di passaggio fra toscano e gruppo centrale puro, detta perimediana (dal greco perì = intorno; cfr. M. Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti italiani). A Roma come in buona parte dell'Umbria, la terminazione -u è sconosciuta: nella capitale si dice fijo (o fio), a Perugia 'sabato' suona sab'to.
Nella zona anconitana (intesa come quel gruppo di dialetti compresi fra Ancona e Fabriano), invece, il destino delle -u e delle -o latine è molto particolare. Senza dubbio, per via dell'influsso toscano, vi si applica l'indistinzione. In alcune città, però, l'esito è alquanto curioso, perché le -o e le -u del latino convergono sì in -o, ma tale -o rimane piuttosto cupa, cadendo spesso in una -u.
Per questo troviamo (per esempio a Castelfidardo, ma anche ad Osimo) termini come quanno/quannu e pogo/pogu, che invece suonerebbero soltanto quanno e pocu a Macerata, e unicamente quanno e poco a Roma.
Pertanto, le -u anconitane sono nettamente diverse, per origine, dalle -u maceratesi: infatti, le prime sono un ricadere di tutte le -o toscane in -u, mentre le seconde sono dirette discendenti delle -u latine, impossibili da confondere o scambiare con le -o. Per fare un esempio, un maceratese non dirà mai magnu per 'mangio', cosa che invece capita agli anconitani.
Occorre comunque fare un paio di precisazioni:
1. La -o che ricade in -u è un fenomeno limitato al dialetto anconitano propriamente detto, quindi, se già si attenua ad Osimo e Loreto, scompare del tutto a Jesi e a Fabriano. Perciò la parola 'quando', mentre ad Osimo oscilla fra quannu e quanno, a Jesi suona soltanto quanno, come nel romanesco.
2. Nel dialetto maceratese, in realtà, la terminazione latina -u può passare ad -o se si tratta di un aggettivo usato come nome. Per esempio, l'accusativo latino paucum dà origine a pócu se si tratta di un aggettivo (es. 'lu témbu è pócu', il tempo è poco), e a pòco se è usato come sostantivo (es. 'lo pòco che mm'ha ditto', il poco che mi ha detto). Inoltre, la differente apertura della vocale o è dovuta a un fenomeno chiamato metafonesi, che in presenza di -u/-i alla fine delle parole provoca la chiusura delle gravi in acute, e delle acute nella scura corrispondente (es. il toro: lu tóru, i denti: li déndi, il borgo: lu vurgu, i capretti: li capritti).

Per concludere con una curiosità indipendente da quanto detto finora, si veda il termine osimano ghiòmo (o jomo) che significa 'gomitolo': esso deriva direttamente dal latino glomus, mentre la forma italiana ci giunge tramite varie trasformazioni del diminutivo glomulus. Per passare dal latino all'osimano, basta effettuare la diffusa trasformazione da 'l' a 'i' (glomus > ghiomo), comune a molte altre parole (anche in italiano: gluttum > ghiotto, flamma > fiamma, clarus > chiaro, ecc). La variante jomo si ottiene in seguito, per via del frequente passaggio tipicamente marchigiano di ghi- in j- (es. ghiotto, ghianda > jotto, janna, ecc).

martedì 16 agosto 2011

La pertigara e 'l pertigaro

In dialetto osimano, i vocaboli pertigara e pertigaro indicano l'aratro, ossia quello strumento agricolo indispensabile per l'aratura dei campi; 'arare un campo' in vernacolo si dice (o róppe) el sodo. Ecco uno schema che rappresenta le varie parti dell'aratro, seguito dai rispettivi nomi in dialetto e in lingua.

1. La récchia (versoio) - serve a rovesciare lateralmente la zolla;
2.
La gumièra (vomere) - taglia la zolla in profondità;
3.
Lu scarpello (scalpello) - coadiuva il vomere;
4.
El cóltro (coltello) - taglia verticalmente la zolla.

Nel nostro dialetto, l'aratro assume i suddetti nomi in base alla grandezza e al materiale da cui è ricavato:
- la pertigara (anche detta pertegara) è un tipo di aratro medio-grande, con vomere, versoio e coltello sorretti da una struttura in legno: tale struttura si compone di un manubrio, governato dal contadino che effettuava l'aratura, e di un telaio, al quale venivano aggiogate una o più coppie di buoi (i bô) o di mucche (le âcche);
- el pertigaro (anche detto pertegaro o cultrina, al femminile) è un tipo di aratro più piccolo, fatto interamente di ferro o di acciaio, che oggi si trova spesso agganciato ai trattori in versione polivomere, cioè con più gumiere disposte sulla stessa fila; altre varianti diffuse sono il ripuntatore (lu ripuntadore), che prevede anche un coltello posteriore, e l'aratro reversibile (el voltarecchie), composto da due aratri ribaltabili, simmetrici l'uno all'altro.
- el pertigaró (termine meno diffuso) è, invece, una pertigara di grandi dimensioni.













Sopra, una vecchia cultrina con ruote;
sotto, un
voltarecchie a tre vomeri.
Aratura eseguita con la pertigara (dalla Storia di Osimo di Carlo Grillantini).

sabato 18 giugno 2011

I verbi regolari della terza coniugazione

In italiano, gli infiniti della terza coniugazione escono in -ire. In dialetto osimano, per via del ben conosciuto troncamento, -re cade e resta (sentì, finì...). Tanto le forme italiane quanto quelle dialettali provengono dalla quarta coniugazione latina, dove la caratteristica preminente era l'uscita -io della prima persona singolare (audio, sentio, finio...). L'osimano, a modo suo, mantiene talvolta questa desinenza -io, che s'innesta sull'uscita italiana: di conseguenza, abbiamo in latino finio, in italiano finisco, in dialetto fenìscio; e questa desinenza -scio si estende a tutte le voci verbali che terminano col gruppo -sco (conosco >; cunoscio). Su quest'ultimo esempio, è simpatico ricordare i versi di Jacopo da Lentini, maestro della Scuola Siciliana ("...e certo bene ancoscio, - c'a pena mi conoscio, - tanto bella mi pare", da Meravigliosamente).
Solitamente, in dialetto osimano non viene mantenuto il gruppo -sc- per tutta la coniugazione. Al contrario, in alcuni dialetti del gruppo umbro-maceratese, tali consonanti si ripetono in tutte le voci, con un esito curioso: a Filottrano, 'spedire' fa spidiscio - spidisci - spidisce - spidiscémmo - spidiscéte - spidisce (da L. Gasparetti, Quanno a Filottrà anco' c'era u camì déa filandra).

VERBO FENI' (finire)
INFINITO PRESENTE
fenì (arcaico fernì, riportato da Grillantini)
INFINITO PASSATO aé ffenido
PARTICIPIO PASSATO fenido
PRESENTE INDICATIVO
io feniscio - te fenisci - lù fenisce
nualtri fenimo - vualtri fenide - lora fenìscene (fenisce)

IMPERFETTO INDICATIVO
io finîo - te finîi - lù finîa
nualtri finimie (finimmi) - vualtri finîi - lora finîene (finîa)

FUTURO INDICATIVO
io fenirò - te fenirai - lù fenirà
nualtri feniremo - vualtri fenirede - lora feniranne (fenirà)

PRESENTE CONDIZIONALE
io fenirìa - te fenirissi (fenirisci) - lù fenirìa
nualtri fenirissimo (fenirissimi) - vualtri fenirissi - lora fenirìene (fenirìa)

PRESENTE CONGIUNTIVO (poco usato)
io feniscia - te feniscia - lù feniscia
(nualtri fenimo) - (vualtri fenide) - lora fenisciane (feniscia)

IMPERFETTO CONGIUNTIVO
io fenisse - te fenissi - lù fenisse
nualtri fenissimi - vualtri fenissi - lora fenìssene (fenisse)

IMPERATIVO
fenisce! - fenimo! - fenide!

VERBO SENTI' (sentire)
INFINITO PRESENTE
sentì, sènte, sintì
INFINITO PASSATO aé ssentido (ntéso)
PARTICIPIO PASSATO sentido (ntéso)
PRESENTE INDICATIVO
io sento - te senti - lù sente
nualtri sentimo - vualtri sentide - lora sèntene (sente)

IMPERFETTO INDICATIVO
io sentîo - te sentîi - lù sentîa
nualtri sentimie (sentimmi) - vualtri sentîi - lora sentîene (sentîa)

FUTURO INDICATIVO
io senterò - te senterai - lù senterà
nualtri senteremo - vualtri senterede - lora senteranne (senterà)

PRESENTE CONDIZIONALE
io senterìa - te senterissi (senterisci) - lù senterìa
nualtri senterissimo (senterissimi) - vualtri senterissi - lora senterìene (senterìa)

IMPERFETTO CONGIUNTIVO
io sentisse - te sentissi - lù sentisse
nualtri sentissimi - vualtri sentissi - lora sentissene (sentisse)

IMPERATIVO
sente! - sentimo! - sentide!