sabato 29 giugno 2013

La canzone di messer Osmano


Nel capitolo I, XI del De vulgari eloquentia (1303-1305), Dante Alighieri, dopo aver bollato la parlata dei romani come il più indegno (turpissimum) fra i volgari della penisola, sceglie di citare una canzone a contrasto per offrire un saggio della lingua in uso a Roma, a Spoleto e nella Marca Anconitana. Il componimento, di cui è riportato soltanto l’incipit (Una fermana scopai da Cascioli, / cita cita se ‘n gìa ‘n grande aina), viene giudicato perfetto nella struttura metrica (recte atque perfecte ligatam) ed è classificato come una delle numerose canzoni che all’epoca si scrivevano “in improperium” delle genti spoletine e marchiane, con l’intento, cioè, di parodiarne la parlata in modo tutt’altro che bonario. Dante ne attribuisce la composizione a un non meglio identificato Castra, poeta fiorentino di cui ancora oggi si hanno davvero scarsissime notizie.
Un manoscritto della fine del Duecento, però, sembra contraddire gli estremi che l’autore della Commedia ci fornisce: si tratta del codice Vaticano Latino 3793, una silloge che contiene i più antichi testi poetici della letteratura italiana a noi pervenuti. Il documento, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, raccoglie per intero la canzone, riportando la dicitura “messer Osmano” proprio là dove gli altri componimenti mostrano il nome del proprio autore; di Castra il fiorentino, nel codice, non v’è traccia. Come si può spiegare, dunque, questa divergenza nell'attribuzione?
Da più di cent’anni a questa parte, gli studi in merito alla canzone non hanno mancato di suscitare pareri discordanti tra i critici e i filologi che si sono cimentati nella qualificazione e interpretazione del testo, il quale, per quanto semplificato e toscanizzato dal copista che stilò il codice, risulta comunque scritto in un idioma marchigiano dugentesco, antenato dei nostri dialetti. C’è chi, come Crocioni (1922), ha negato l’attendibilità del ragguaglio dantesco preferendo affidarsi al codice Vaticano, mentre altri hanno sostenuto che messer Osmano fosse uno dei due dialoganti fittizi del contrasto (De Bartholomaeis 1956); altri ancora hanno ipotizzato che Castra e Osmano fossero la stessa persona (Caix 1875), ma la questione è di là da risolversi.
Non v’è alcun dubbio, tuttavia, che la lingua e l’ambiente in cui fu composta la canzone siano verosimilmente marchigiani, più che spoletini o romani: si parla infatti di una fermana, del fiume Chienti (lo Clenchi, v. 35) e, soprattutto, la didascalia “messer Osmano” – che essa indichi un personaggio immaginario o un poeta reale – sembra proprio alludere a un nostro concittadino di qualche secolo fa, ovvero, come diremmo oggi, a un “signore osimano”. Tra le interpretazioni che hanno tenuto conto del contesto linguistico e morfologico marchigiano è senz’altro degna di nota quella di Baldoncini (1983).
Prima di passare brevemente in rassegna alcuni vocaboli della canzone, però, spendiamo qualche parola sul contenuto. Il testo, composto esattamente da 50 versi, è una rivisitazione del genere provenzale della pastorella: un contadinotto marchigiano, imbattutosi in una serva (fantilla) che sta portando da mangiare agli altri braccianti, riesce, dopo un breve battibecco, a piegarla di fronte alle sue avances (un po’ come succede in un altro famoso contrasto giullaresco del Duecento, Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo).
I critici che hanno curato le edizioni moderne della canzone sono concordi nel sostituire, sulla base del Vat. Lat. 3793, lo “scopai” di Dante con “iscoppai”. Camilli (1915) e Baldoncini lo hanno tradotto con istruii, ammaestrai, facendolo risalire a un latino ex-cuppare che propriamente significherebbe toglier via la scorza, dirozzare; in effetti, nell’odierno osimano rurale si riscontrano il verbo scurpulà/scuppulà, usato in merito alla sgusciatura dei frutti e, soprattutto, l’aggettivo scupparéccio, presente nel glossario di Grillantini (1966), che qualifica un frutto il cui nocciolo è facile a separarsi dalla polpa (ad esempio, una pesca o un’albicocca; si noti il suffisso –éccio, che indica propensione anche in scurdareccio, magnareccio, etc.). In ambito osimano, annotiamo anche i verbi scurpellà, che Morroni (2008) traduce con lacerare, e scuzzonà (Mengarelli 2005) che, per quanto leggermente diverso nella forma, vale istruire, addestrare. Il protagonista delle canzone avrebbe, insomma, “iniziato” la sua interlocutrice all’arte dell’amore.
La fermana si sta recando dai suoi compagni portando loro, tra le altre cose, “un truffo di vin misticato” (v. 15). A parte l’ancora attuale misticato, che rima con un “me l’ài comannato” dove si nota una altrettanto corrente assimilazione progressiva nd > nn, va sottolineato il vocabolo truffo, che Baldoncini rende con fiasca di terracotta, riportando anche le varianti marchigiane trufu, trufellu, senz’altro di area maceratese. Per quanto riguarda Osimo, Grillantini nel suo glossario dà la stessa traduzione al vocabolo vernacolare truffa, mentre con truffello si usa indicare il calamaro (Morroni 2008), forse perché – ma questa è una nostra congettura – la forma del mollusco sembrerebbe richiamare quella del vaso.
Fra i vari doni che il nostro campagnolo promette di offrire alla serva in cambio della sua desistenza, ci sono “paneri (panari per Contini) di profici / e morici” (vv. 32-33), cioè “canestri di fichi e more”. I morici sono proprio quelle murèghe che un tempo abbondavano sui rovi, ai bordi delle nostre vie di campagna. Poco più avanti si legge la protasi “se quisso no’ rdici” (v. 34), in cui il verbo è, come nel dialetto di oggi, soggetto a metatesi iniziale (ridici > ardici) e aferesi (‘rdici).         
Le rispondenze fra il lessico della canzone e il vernacolo attuale sono quindi numerose, ma certo non sufficienti a ricostruire un glossario dell’osimano dugentesco o ad attestare che il componimento sia stato scritto ad Osimo, dacché le discendenze di quei vocaboli sono diffuse un po’ in ogni zona del Piceno. Tuttavia, troviamo pur sempre affascinante la possibilità, ancorché remota, che uno tra i primi testi della letteratura italiana sia scaturito dall’ironia giocosa di un messere osimano di ottocento anni fa.

(pubblicato da La Meridiana)


         
Due tipi di “truffa” (immagine presa da “Saggi e studi…”, Grillantini 1966)

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