Come s'è già ricordato, i dialetti italiani sono frutto dell'evoluzione del latino, al quale nel tempo si sono sovrapposti linguaggi di origine differente. La lingua italiana stessa deriva dal volgare fiorentino, innalzato al rango di idioma nazionale per i meriti letterari di autori come Dante, Petrarca e Boccaccio.
Nella loro parallela evoluzione, i vernacoli italiani si sono spesso influenzati reciprocamente. Nel quadro dei dialetti centro-meridionali, dai quali viene distinta per convenzione la sfera dei dialetti settentrionali (gallo-italici), il toscano appare come un gruppo molto particolare. Infatti, le parlate di Toscana sono per certi versi più conservative rispetto al latino, e per altri si discostano di più. Un elemento di distacco dalla lingua di Virgilio è senza dubbio l'assenza della distinzione fra -o e -u latine, passata poi nell'italiano.
Il latino presentava parole terminanti in -o (es. quando, homo, facio, manduco) e in -u (es. dictus, paucus, filius; all'accusativo dictum, paucum, filium). Questo sistema si è venuto semplificando col tempo, cosicché nel fiorentino (e quindi in italiano) abbiamo quando-uomo-faccio-mangio, ma anche detto-poco-figlio, con la -u dell'accusativo aperta in -ö.
Tuttavia, questa convergenza in -o non è avvenuta nel resto del centro-Italia, tant'è vero che in città come la vicina Macerata (ma anche già a Filottrano) si sente dire quanno-omo-faccio-magno, ma dittu-pocu-fiju, con la mancata apertura di -u.
Non bisogna trascurare, però, l'influenza che il toscano sta esercitando da qualche secolo sulle parlate limitrofe. Infatti, il romanesco, il perugino e la zona anconitana risentono molto dell'influsso fiorentino. Questi tre gruppi dialettali, perciò, costituiscono una fascia di passaggio fra toscano e gruppo centrale puro, detta perimediana (dal greco perì = intorno; cfr. M. Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti italiani). A Roma come in buona parte dell'Umbria, la terminazione -u è sconosciuta: nella capitale si dice fijo (o fio), a Perugia 'sabato' suona sab'to.Nella zona anconitana (intesa come quel gruppo di dialetti compresi fra Ancona e Fabriano), invece, il destino delle -u e delle -o latine è molto particolare. Senza dubbio, per via dell'influsso toscano, vi si applica l'indistinzione. In alcune città, però, l'esito è alquanto curioso, perché le -o e le -u del latino convergono sì in -o, ma tale -o rimane piuttosto cupa, cadendo spesso in una -u.
Per questo troviamo (per esempio a Castelfidardo, ma anche ad Osimo) termini come quanno/quannu e pogo/pogu, che invece suonerebbero soltanto quanno e pocu a Macerata, e unicamente quanno e poco a Roma.
Pertanto, le -u anconitane sono nettamente diverse, per origine, dalle -u maceratesi: infatti, le prime sono un ricadere di tutte le -o toscane in -u, mentre le seconde sono dirette discendenti delle -u latine, impossibili da confondere o scambiare con le -o. Per fare un esempio, un maceratese non dirà mai magnu per 'mangio', cosa che invece capita agli anconitani.
Occorre comunque fare un paio di precisazioni:
1. La -o che ricade in -u è un fenomeno limitato al dialetto anconitano propriamente detto, quindi, se già si attenua ad Osimo e Loreto, scompare del tutto a Jesi e a Fabriano. Perciò la parola 'quando', mentre ad Osimo oscilla fra quannu e quanno, a Jesi suona soltanto quanno, come nel romanesco.
2. Nel dialetto maceratese, in realtà, la terminazione latina -u può passare ad -o se si tratta di un aggettivo usato come nome. Per esempio, l'accusativo latino paucum dà origine a pócu se si tratta di un aggettivo (es. 'lu témbu è pócu', il tempo è poco), e a pòco se è usato come sostantivo (es. 'lo pòco che mm'ha ditto', il poco che mi ha detto). Inoltre, la differente apertura della vocale o è dovuta a un fenomeno chiamato metafonesi, che in presenza di -u/-i alla fine delle parole provoca la chiusura delle gravi in acute, e delle acute nella scura corrispondente (es. il toro: lu tóru, i denti: li déndi, il borgo: lu vurgu, i capretti: li capritti).
Per concludere con una curiosità indipendente da quanto detto finora, si veda il termine osimano ghiòmo (o jomo) che significa 'gomitolo': esso deriva direttamente dal latino glomus, mentre la forma italiana ci giunge tramite varie trasformazioni del diminutivo glomulus. Per passare dal latino all'osimano, basta effettuare la diffusa trasformazione da 'l' a 'i' (glomus > ghiomo), comune a molte altre parole (anche in italiano: gluttum > ghiotto, flamma > fiamma, clarus > chiaro, ecc). La variante jomo si ottiene in seguito, per via del frequente passaggio tipicamente marchigiano di ghi- in j- (es. ghiotto, ghianda > jotto, janna, ecc).
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